Incontro sull’evoluzione dell’Europa il 9 gennaio 2024 al bar Creme Caramel a Berlino. Grazie a chi anche in ibrido ha contributo ad alimentare le riflessioni su come contribuire ad una campagna elettorale che possa arginare le preoccupanti derive autoritarie. Inoltre, un grazie di cuore a Pierantonio Rumignani, il nostro iscritto che ha rilanciato la discussione. Di seguito una sintesi.
Di Pierantonio Rumignanani, PD Berlino e Brandeburgo
Ogni stato si trova oggi di fronte a impegni finanziari fortemente crescenti. Alla necessità di dare impulso a processi radicali di digitalizzazione e di conversione ecologica ed energetica, cui l’iniziativa privata non può fare fronte da sola mancandole sufficienti risorse e incentivi economici, si accompagna anche l’urgenza di provvedere al rinvigorimento dei negletti servizi pubblici, dalla sanità all’istruzione e alle infrastrutture ivi inclusa, in particolare nel nostro paese, la stessa macchina dello stato. Si aggiungono ora anche accresciuti impegni militari dopo anni di quiete resa possibile da quello che è stato definito il “dividendo della pace”. Si tratta di una tempesta perfetta e preannunciata da tempo ove quasi ogni misura da prendere si presenta con urgenza, in cima a tutte l’impendente disastro ecologico come ci viene ricordato del monito continuo di vicende ambientali.
Ora si vendica il rifiuto di affrontare per tempo e in modo organico il sistema fiscale e di spesa dello stato avendo optato per un ben più modesto perseguimento di politiche finanziarie mirate principalmente al rispetto di vincoli finanziari a dispetto di bisogni crescenti. A complicare le cose e a restringere la flessibilità dell’azione di governo sono intervenute, in particolare a partire dalla crisi finanziaria del 2008, una riduzione della crescita economica e della dinamica della produttività. Per l’Italia le cose si sono fatte particolarmente complicate a causa di specifici fattori penalizzanti quali i livelli elevati dell’indebitamento pubblico e della tassazione nel confronto con altri paesi.
Davanti alla prospettiva per lo stato di dovere fare fronte a un eccezionale aumento della spesa operando contemporaneamente un sensibile mutamento della sua composizione i partiti – così anche in Italia – hanno reagito spaziando fondamentalmente da una negazione più o meno conclamata della realtà a una sua accettazione reticente e selettiva di fronte agli elettori per tacito timore di conseguenze negative nei sondaggi, come se le elezioni fossero domani, e concentrandosi sul soddisfacimento degli interessi di chi è considerato parte dei propri sostenitori naturali.
La considerazione centrale va allo stato di crisi della visione conservatrice dell’economia che ha dominato negli ultimi decenni secondo la quale le soluzioni, qualunque esse siano, devono continuare a venire da meccanismi definiti “liberi” del mercato anche quando questo si dimostra in forte difficoltà a fornire rimedi se non sostenuti da una forte azione pubblica imposta da situazioni di eccezione. Abbiamo quindi il caso dei cristiano-democratici tedeschi, ad esempio, che in nome di un’ortodossia fatta sovente di mere parole d’ordine, predicano la finanziabilità delle politiche ecologiche ed energetiche così come la neutralità del sostegno pubblico nei confronti delle varie tecnologie in competizione tra loro ritrovandosi in piena contraddizione con l’esigenza di un intervento pubblico necessariamente selettivo a favore delle soluzioni più promettenti in presenza di risorse e tempo limitati. L’ambiguo criterio della finanziabilità (ma quale politico dirà mai che si debba raccomandare una politica non finanziabile?) mostra il proprio colore nel momento in cui si ubbidisce contemporaneamente, per coazione a ripetere dettata da interessi che si intende favorire, al mantra di una riduzione del livello impositivo o, nel modo assoluto di chi difende il Piave, il rifiuto di ogni possibile aumento della tassazione, anche parziale. Il risultato di tale impostazione non può che essere la limitazione della spesa pubblica secondo criteri che vedono investimenti e spesa sociale perdenti rendendo strutturalmente insufficiente l’intervento dello stato – a detrimento del sistema intero e della stessa economia privata. Questa posizione parzialmente “negazionista” trova espressione in frasi improbabili che si possono leggere nel sito della CDU in merito alla politica ambientale come: “Siamo pur sempre sulla buona strada” o “Non è che il mondo scomparirà domani” – parole di Friedrich Merz, segretario del partito.
L’attuale insuccesso di conservatori tradizionali presso gli elettori in tutta Europa, che li spinge fino a mettersi al traino della destra radicale come in Italia, spiega perché la versione non edulcorata del negazionismo in materia ambientale e sociale possa avere il vento in poppa. Il suo successo attuale, frutto della sfiducia nei confronti dei partiti tradizionali soprattutto da parte di chi teme di perdere l’acquisito e che vede un nemico nell’immigrato e nello “scansafatiche” aiutato dallo stato, non può essere apportatrice di soluzioni poiché si basa sul misconoscimento e travisamento della realtà. Tali partiti non possono che promettere polarizzazione e conflitto sociale.
Il terzo fronte, quello dei “progressisti”, dovrebbe trovarsi in una situazione favorevole perché più aperto al cambiamento e più cosciente dei problemi relativi all’ambiente e alla società. Ma non riesce nella realtà quotidiana a trarne vantaggio. Molteplici sono le ragioni, tra cui si trova anche quella che vede più difficile il raggiungimento di un consenso su un programma politico comune tra convinzioni politiche diverse rispetto alla tipica operazione di ripartizione di potere tipica della destra conservatrice a protezione di interessi determinati. Ma la forte concorrenzialità tradizionale tra i partiti della sinistra e la spinta sempre presente verso posizioni di coerenza che limita la capacità di compromesso non sono che parte della spiegazione.
Evitando di entrare nei dettagli delle vicende storiche della sinistra nei vari paesi europei e trascurando l’aspetto importante della discriminante tra riformatori e radicali salta all’occhio la difficoltà della sinistra attuale ad affrontare la situazione di crisi incipiente della società occidentale con una risposta coerente che copra l’obiettiva complessità dei problemi dalle questioni sociali a quelle dell’ambiente e dell’economia collegandole in modo organico – in contrasto con l’ambizione che fu propria fra gli altri persino di un partico come il PCI. A fronte dell’accentuato scetticismo dell’elettore che in assenza di una visione globale si rivela restío a dare fiducia, in questo influenzato anche dall’onda della disinformazione e, presso molti, dalla tentazione di trovare soluzioni semplici e muscolari, la reazione di riflesso è spesso quella del rifugio in schemi rintracciabili nel passato per quanto, come in Italia, in una versione moderna di matrice “liberal” anglosassone. Questo è il quadro in cui si muove infatti l’attuale gestione del PD ove è palese il tentativo della riduzione delle tematiche a punti nodali (diritti, lavoro, ambiente) nell’attesa di trovare maggioranze, anche di coalizione di cui si aspira la leadership, in un modo puntuale su temi specifici. Se questo approccio sarà capace di ristabilire la maggiore fiducia da parte degli elettori di cui ha goduto il partito in anni ormai passati è un quesito che non trova ancora risposta. Considerevole è però qui il rischio di esaurirsi in un gioco di rivendicazioni per quanto singolarmente giustificate. La stessa scelta della segmentazione selettiva degli interventi può anche ingenerare l’impressione presso gli elettori di una “vendita ottimistica” e quindi poco credibile del tema ambientale come se esso potesse essere visto prevalentemente come occasione e non come un problema spinoso le cui soluzioni si pongono non di rado in contrasto con esigenze e aspirazioni sociali.
Che l’alternativa possa difficilmente essere rappresentata nel campo progressivo da riedizioni del blairismo all’interno della sinistra, inclusa quella italiana, sta il fatto che esso ha sostanzialmente rappresentato un adeguamento alla vittoria del neoliberismo di stampo thatcheriano e reaganiano degli anni ottanta con l’inserimento di paletti nel campo del sociale. Per le ragioni esposte sopra anche una riedizione del blairismo soffrirebbe forzatamente delle stesse criticità del neoliberismo. Dovesse il leader laburista Keith Starmer, vincere come si prevede al momento le prossime elezioni nel Regno Unito, si troverà di fronte a questa complicazione.
È opinione dello scrivente che i democratici americani mostrino in linea di principio quale sia la direzione da seguire sebbene abbiano finora solo potuto attaccare, per motivi di aritmetica parlamentare, il tema delle uscite dello stato e non quello delle entrate. Il tema fiscale è un capitolo al momento incompiuto – ma rimane passaggio obbligato così come lo è per tutti i paesi avanzati dell’occidente rivedendo le politiche di alleggerimento delle imposte perseguite nel passato a particolare vantaggio dei ceti ricchi.
PAR – 23.07.2023
Può essere il 70%+ dei francesi in errore? “Ni”, ma non “no”, anche considerando l’interesse dei ceti meno abbienti
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Di Pierantonio Rumignani, PD Berlino e Brandeburgo
Sul piano dei principi democratici la risposta è delle più semplici: è temerario e ingiustificabile che un Presidente della Repubblica nel suo ruolo “esecutivo” si sovrapponga alla volontà della maggioranza della propria popolazione, mettendo nell’angolo il potere legislativo attraverso l’uso formalistico della sfiducia in Parlamento per evitare il voto (ma non suona noto a noi italiani?). Ancora una volta, fra l’altro, tocchiamo con mano i problemi insiti in ogni sistema presidenziale, sempre preso dalla necessità di trovare un equilibrio tra i vari poteri dello Stato – negli USA come in Francia. Se poi il Presidente ha allures regali e sembra trovare gusto nell’affermazione di sé e del proprio ruolo nel paese dei sollevamenti popolari, tra jacqueries oscurantiste e giacobinismo sanculotto, le proteste anche violente non si fanno attendere.
Ma c’è una seconda ragione che parla a favore di una risposta positiva al quesito: ogni paese è libero di scegliere il proprio tenore di vita distribuendo le risorse tra presente e futuro, decidendo tra l’altro del livello delle proprie pensioni. Se è vero che la Francia presenta dati statistici particolari è pure vero che ciò riflette preferenze che non possono essere messe in discussione – ma attenzione: a meno di contraddizioni che rimangono sovente sconosciute al normale cittadino perché nascoste tra le pieghe delle statistiche o anche perché più o meno incoscientemente rimosse per la loro scomodità. In tale caso una discussione si impone, soprattutto se a lungo termine i possibili perdenti sono i ceti meno abbienti.
È da considerare inoltre che le preferenze dei cittadini francesi si sono profondamente modificate negli ultimi decenni. Un’indagine condotta per la Fondation Jean Jaurès mostra come l’attività lavorativa sia scesa drammaticamente in termini di priorità di vita: dal 60% nel 1990 al 24% trenta anni dopo mentre il valore del tempo libero è salito di dieci punti percentuali dal 31% al 41%. Ciò non deve sorprendere considerando che lo stress sul lavoro è costantemente aumentato nel tempo accompagnandosi a una stagnazione dei redditi nei quartili più bassi portando a numerose manifestazioni collegate alla “great resignation”, ovvero al fenomeno dell’abbandono del posto di lavoro da parte dei lavoratori subordinati per scelta di vita.
Che i tempi siano cambiati dimostra anche un paragone con quanto avvenuto al tempo della riforma Balladur, ministro del governo Mitterand, che portò nel 1993 il numero minimo degli anni contributivi da 37,5 a 40 senza incontrare praticamente opposizione. Ancor meno difficile fu il caso della precedente legge Boulin sotto Pompidou nel 1971 che portò gli anni contributivi in modo drastico da 30 a 37,5. In realtà, come più volte ricordato dai giornali nei giorni scorsi, il cuore francese batte per la legge Auroux, ministro del governo Mitterand, che nel 1983 ridusse l’età pensionistica da 65 a 60 anni con 37,5 anni contributivi. Occorre tuttavia ricordare qui un dettaglio importante che gioca ancora oggi un ruolo importante nella critica alla riforma Macron di questi giorni: fine centrale delle misure di Auroux era la riduzione della disoccupazione, in particolare di quella giovanile, che si era acuita fortemente negli anni settanta, attraverso un pensionamento più rapido, misura dal successo assai contestato sulla base dei rilievi statistici generalmente deludenti successivi all’introduzione di tali norme. Oggi il tema del prepensionamento non sembra avere più l’importanza di allora, allorché, sempre in Francia, esso rappresentava fino a un quarto dei nuovi pensionamenti. Il prepensionamento porta alla rinuncia di know-how importante nelle aziende – oggi un grave problema.
La Francia è un paese in cui la decisione consolidata negli anni è chiaramente quella di un sistema sociale generoso e ad alto costo che include un’età particolarmente bassa di pensionamento come il grafico seguente mostra (la statistica dell’OECD distingue purtroppo tra uomini e donne senza la stima di una media – l’andamento del grafico relativo alle donne non è dissimile).
Non solo l’età di pensionamento è particolarmente bassa rispetto ad altri paesi, ma il tasso di sostituzione (la percentuale della pensione sull’ultimo stipendio percepito) è tra i più elevati così come la spesa pensionistica in rapporto al PIL è inferiore solo a Grecia e Italia inquadrandosi in uno schema di alta spesa sociale, la più elevata dei paesi coperti dalle statistiche dell’OECD.
Il problema – non solo riguardo alla Francia – si riduce in sostanza, per quanto detto sopra, al quesito sulla sostenibilità nel tempo del sistema a ripartizione che è basato in Francia, come da tempo anche in Italia, sui contributi prestati e non sul reddito percepito. Qui le opinioni divergono nel paese transalpino anche se si fa universalmente riferimento alle previsioni prodotte annualmente dall’organismo indipendente di saggi COR – Conseil d’Orientation des Retraites, in un lungo rapporto di circa 350 pagine che esamina in modo particolarmente dettagliato i parametri che determinano la spesa pensionistica sulla base di molteplici fattori che vanno da quelli relativi al contesto demografico e all’andamento della popolazione attiva fino all’evoluzione della produttività del lavoro per la quale vengono sviluppate quattro ipotesi, in un ventaglio che va da un aumento medio dello 0,7% all’1,6% annuo in un orizzonte temporale fino al 2070 sull’ipotesi di un tasso medio della disoccupazione del 7%.
Il seguente grafico del Rapporto 2022 del COR – in cui l’andamento della spesa pensionistica in relazione al PIL si stabilizza dopo il 2035 senza che tale rapporto superi il picco avuto nel 2021 a causa del Covid – mostrerebbe che l’allarmismo da parte del governo sia fondamentalmente ingiustificato.
Grafico 1 – Spesa pensionistica come percentuale sul PIL – 2000-2070
Tuttavia, analizzando le ipotesi alla base delle proiezioni, le cose si fanno più complicate – e non solo perché l’espansione prevista del monte pensioni dell’1,8% annuo è ben più veloce dell’aumento della spesa pubblica totale dello 0,6% sulla base del Programma di stabilità del governo (PSTAB) 2022-2027 ove la spesa per le pensioni rappresenta attualmente circa un quarto degli impegni dello stato francese. Di fatto si prevede da qui al 2032, sulla base del regime attuale contributivo, un aumento dell’incidenza della spesa sul PIL dal 13,8% al 14,7%, pari al picco del 2021, nel 2035 secondo l’ipotesi più pessimista dell’andamento della produttività (0,7% all’anno) per poi restare sostanzialmente costante, sempre in tale ipotesi, o addirittura in riduzione nelle altre. Il governo prevede che il saldo del bilancio pensionistico, ancora positivo nel 2021 per circa € 900 milioni (entrate: € 346 mrd; uscite: € 345 mrd) diventi negativo fino a raggiungere € 21,2 mrd nel 2035.
Per quanto riguarda il grafico della spesa pensionistica occorre osservare quanto segue – ove l’ultimo punto appare di particolare importanza:
L’andamento orizzontale della curva pensionistica nel periodo 2022-27 è fortemente influenzata dall’ipotesi di una riduzione al 5% del tasso di disoccupazione prevista dal Programma di stabilità – previsione che può apparire ottimista se confrontata con il livello storico della disoccupazione in Francia, per lo più al di sopra dell’8% a partire dall’anno 2000. In modo più prudente il COR prevede per il periodo successivo un riassestamento della disoccupazione al 7%. In ragione di una eventuale mancata riduzione della disoccupazione la curva della spesa pensionistica riprenderà l’andamento verso l’alto prima del 2027 producendo deficit sostanzialmente maggiori di quelli programmati.
Grafico 2 – Tasso annuo medio di disoccupazione 2000-2021 (fonte: OECD)
I dati statistici di questo secolo indicano per la Francia un aumento medio della produttività del lavoro al di sotto dello 0,7% (0,43% nel periodo 2010-2021 e 0,57% nel periodo 2000-2021; fonte: OECD). Il ventaglio delle ipotesi del Rapporto COR appare quindi tendenzialmente ottimistico e la curva futura della percentuale della spesa pensionistica sul PIL potrebbe ritrovarsi comodamente sopra quelle mostrate nel grafico.
In conseguenza del progressivo aumento del minimo degli anni di contribuzione a 43 (riforma Touraine del 2014, governo Hollande) è in atto un ulteriore aumento previsto dell’età effettiva media di pensionamento (media generale – base diversa rispetto a quella del grafico precedente) da 62,4 anni nel 2022 a 63,7 anni verso la metà del prossimo decennio. Senza tale movimento la curva del grafico 1, già più bassa per un aumento indipendente della popolazione attiva francese (OECD: 80,8% sulla popolazione in età da lavoro nel 2022; + 3,5% circa rispetto all’anno 2000), sarebbe maggiormente inclinata verso l’alto contribuendo a un maggiore carico della spesa pensionistica sul PIL.
Grafico 3 – Età media di pensionamento
Con la legge Balladur del 1993 il sistema pensionistico pubblico francese, a differenza ad esempio di quelli vigenti in Germania e Italia, passò da una rivalutazione delle pensioni correnti sulla base dell’andamento dei salari a quello sulla base dell’inflazione. Ciò ha significato la continuazione della difesa delle pensioni in termini reali ma privandole della partecipazione all’aumento della produttività del lavoro. Ciò avrà una forte incidenza in futuro in un confronto con il livello di reddito lordo delle persone attive. Nel periodo considerato dalla proiezione del COR ciò significherà, sulla base della presente legislazione, una consistente riduzione relativa delle pensioni ben di più di un quinto rispetto ai salariati al termine del periodo di previsione nell’ipotesi meno positiva dell’evoluzione della produttività (+0,7%).
Grafico 4 – Pensione media in rapporto al reddito medio della popolazione attiva
Ciò significa, come mostrato dal successivo grafico 5, che il tenore di vita dei pensionati, che aveva raggiunto quello del resto della popolazione all’inizio del secolo per poi mantenere il livello raggiunto, si ridurrebbe sensibilmente in futuro nel confronto relativo.
Garfico 5 – Tenore medio di vita dei pensionati come percentuale di quello medio della popolazione
Sulla base del veloce esame dei dati statistici possiamo quindi dire in conclusione:
Le proiezioni del COR mostrano la possibilità di un sostanziale contenimento del carico della spesa pensionistica a lungo termine anche senza l’introduzione di ulteriore legislazione, per quanto a un livello elevato sul PIL. Un incremento apprezzabile nel prossimo decennio è comunque da attendersi. È bene ricordare che in assenza dei numerosi interventi regolatori del passato l’incidenza della spesa pensionistica sul PIL sarebbe oggi superiore di ben circa il 4% (corrispondendo a un aumento di circa un terzo del deficit) rispetto al livello attuale secondo i calcoli del COR.
Il COR attira l’attenzione sul fatto che le variabili in questione così come i parametri di intervento sono molteplici e non facili da predire rendendo più che possibili scostamenti del deficit pensionistico, anche sostanziali rispetto alle proiezioni elaborate. Queste possono inoltre apparire ottimistiche in alcune aree sulla base delle serie storiche come osservato sopra contribuendo ulteriormente all’incertezza.
Il precario equilibrio della spesa pensionistica è stato “comprato” sostanzialmente con l’aggancio delle pensioni alla sola inflazione senza partecipazione, neanche parziale, all’aumento dei salari (come in Germania e Italia) comportando in prospettiva un impoverimento degli anziani rispetto al resto della popolazione. In ogni caso, la forte pressione che nasce dalla inesorabile riduzione verso la parità numerica dei contributori rispetto ai percettori di pensione rimane una fonte imprevedibile di incertezza.
Di fronte a questo scenario Macron decise verso la fine dell’anno scorso di spingere per una (da lui considerata) urgente riforma del sistema pensionistico elevando, in particolare, l’età minima per la pensione da 62 a 64 anni, anticipando l’aumento del periodo minimo contributivo da 42 a 43 anni (già previsto dalla legge Touraine) e aumentando la pensione minima all’85% dello SMIC (salario minimo) nonché prospettando una semplificazione dei numerosi regimi pensionistici esistenti (se ne contano ben 42 più una varietà di regimi complementari e supplementari). Le conclusioni esposte sopra, oltre la ben conosciuta e crescente avversione dei cittadini francesi verso ulteriori riforme pensionistiche, rendono difficile da comprendere l’urgenza della scommessa di Macron che ha fatto della riforma delle pensioni il punto focale della sua battaglia politica contro la Nupes di Mélenchon e il Rassemblement National di Marine Le Pen senza avere cercato e trovato un appoggio presso i sindacati, in particolare della CFDT, la maggiore organizzazione francese per numeri di iscritti. Tale sindacato è stato più che sovente in passato la sponda per i governi nei numerosi processi di modifica del sistema pensionistico.
L’interpretazione più ovvia della scelta di Macron, che non era riuscito in un primo tentativo quattro anni fa, complice il Covid, è quella di spiegare la mossa con il calcolo di formare direttamente una maggioranza in parlamento assieme ai conservatori moderati e in particolare ai repubblicani provocando una sconfitta clamorosa delle opposizioni. Altre interpretazioni attirano inoltre l’attenzione sul fatto che questo è l’ultimo mandato per Macron come Presidente della Repubblica e che questo lo abbia potuto indurre a osare di più.
La pessima comunicazione e la mancanza di dialogo, caratteristiche della persona Macron, hanno tuttavia fatto passare in secondo piano ogni obiettivo merito delle misure proposte. Il risultato è stato il compattamento dell’opposizione e dei sindacati spostando l’accesa discussione sulla persona di Macron e sullo stesso sistema presidenziale francese dato che il provvedimento è stato fatto passare in modo provocatorio ponendo la fiducia secondo l’art. 49.3 della Costituzione e senza sottoporlo quindi al voto dei deputati. Si è trattato di una fuga in avanti viste le difficoltà di trovare il consenso sperato dei partiti conservatori per raggiungere una maggioranza alla Camera dei deputati.
Le critiche rivolte al piano di riforma di Macron dalla sinistra vertono principalmente sull’aumento degli squilibri già esistenti. Prendendo l’economista Piketty1 come portavoce autorevole di tali critiche e senza dimenticare che il motore principale della “piazza” appare rappresentato dal semplice rifiuto di un allungamento della vita lavorativa, queste si concentrano sull’aumento delle diseguaglianze causato dalla nuova legge a vantaggio di chi ha più ricchezza. I divari dei tassi di contribuzione aumentano conseguentemente all’incremento del periodo contributivo poiché ciò va maggiormente a carico di coloro che entrano più presto nel mercato del lavoro e quindi di chi ha meno. La maggiore età legale di pensionamento significa inoltre che il rischio di povertà aumenti per chi è esposto maggiormente all’eventualità di licenziamento in età matura ma ancora relativamente lontana dal pensionamento. A correzione del sistema attuale Piketty suggerisce l’introduzione di un sistema universale in sostituzione dei numerosi regimi attuali sulla base della concessione della pensione piena in dipendenza solamente del numero degli anni di versamento, di una maggiore progressività operando su una differenziazione del tasso di sostituzione e di una maggiore giustizia incrementando la progressività dei contributi.
Nel riportare sull’opposizione generalizzata alla riforma di Macron molti commentatori fanno riferimento al fronte comune mostrato in questo frangente dai sindacati francesi2. In realtà la loro posizione originaria non è la medesima sulle pensioni, anche se l’intersindacale (organo informale comune dei sindacati) ha recentemente serrato i ranghi in seguito ai crescenti contrasti con l’amministrazione. La CFDT ad esempio, il maggiore sindacato francese per numeri di iscritti, aveva fatto intendere più volte in passato di essere disponibile a discutere una soluzione pensionistica universale con un sistema a punti e un possibile aumento della vita lavorativa in considerazione dell’allungamento della speranza di vita (così il segretario, Laurent Berger, nel suo discorso all’apertura del congresso di metà dell’anno scorso – posizione poi corretta in fase di discussione). Su questo approccio Macron aveva segnalato interesse, così come era avvenuto quattro anni fa al primo tentativo di riforma del suo governo, e molti avevano atteso in questa tornata una sua intesa di massima con la CFDT – cosa che non si è poi realizzata.
È utile a questo punto confrontare le posizioni ufficiali dei due sindacati maggiori, CFDT e CGT in merito a una riforma del sistema pensionistico.
La proposta avanzata questo mese dalla CGT3 può essere riassunta semplicemente come una serie di misure mirate ad allargare la base di contribuzione, in gran parte “a spese del capitale”:
Aumento generalizzato dei salari, tra cui incremento del salario minimo a € 2.000 (oggi: € 1.709,28)
Assunzione di 200.000 nuovi dipendenti da parte dello stato, di cui la metà nella sanità
Assunzione di 100.000 persone nell’economia privata conseguente alla riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore
Abolizione delle esenzioni esistenti al pagamento di contributi sociali
Assoggettamento dei redditi da capitale, in particolare dei dividendi4, al pagamento di contributi sociali
Assoggettamento alla contribuzione, sia per i salariati che per gli imprenditori, dei redditi da lavoro attualmente esenti (in generale: tutte le forme di interessamento all’impresa dei dipendenti)
Aumento delle quote contributive
Si tratta di un programma radicale pensato principalmente in chiave di antagonismo tra reddito da lavoro e reddito da capitale che si ripartiscono un valore aggiunto fondamentalmente dato e dove la quota destinata ai lavoratori può essere aumentata a spese dall’altra senza conseguenze apparenti per la produzione di ricchezza. Tale approccio che propone misure a forti dosi sembra fare a meno di considerazioni sugli effetti macroeconomici. Questi porterebbero senza dubbio, fra altre conseguenze relative al PIL, a minori investimenti, contrariamente a quanto sostenuto in un brevissimo passaggio del documento. Interventi perequativi del reddito sarebbero in realtà molto più indicati nel contesto dell’imposizione diretta poiché essi avverrebbero in un ambito più generale e organico.
Di tutto altro tono è la proposta della CFDT4, concentrata su una profonda ristrutturazione del sistema che preveda l’introduzione di un conteggio a punti5 mantenendo peraltro i diritti acquisiti fino all’introduzione della riforma, un’opportuna calibrazione dei parametri a favore dei redditi più bassi e dei curricoli dominati da lavori pesanti (ovvero della cosiddetta “pénibilité”) così come la possibilità di un passaggio graduale alla pensione implicando anche, con una cessazione progressiva dell’attività, la possibilità di un cumulo di reddito da lavoro e pensione. Punti importanti sono inoltre l’universalità del sistema, implicando anche una soluzione all’annoso problema dei regimi speciali (ad esempio a favore dei ferrovieri), e la dinamizzazione del valore dei punti sull’andamento dei salari e non più dell’inflazione.
Malgrado i contrasti sanguigni nella popolazione e la complessità del tema alcuni punti possono essere avanzati senza particolare timore di ritrovarsi in errore:
La bassa età di pensionamento in Francia è l’espressione di una preferenza della popolazione, almeno al momento attuale. Un’età superiore di pensionamento non è tuttavia necessariamente associata a lesioni di diritti acquisiti, a meno di voler santificare la ormai lontana legge Auroux (1982, governo Mitterand) come molti fanno. In un paese socialmente avanzato come la Svezia, tra gli esempi dei paesi nordici, l’età media effettiva di pensionamento è di 66 anni circa – per non scomodare gli stakanovisti giapponesi che sono a 68 anni. È inoltre previsto in Svezia un adeguamento automatico dell’età pensionabile6 sulla base dell’andamento della speranza di vita, apparentemente un anatema per moltissimi francesi.
Le variabili di regolazione delle pensioni sono assai numerose e l’età di pensionamento è solo una di queste, anche se una delle più potenti. Rinunciando al suo utilizzo per riequilibrare il bilancio delle pensioni, come la Francia intende fare, significa sostituire il suo effetto con quello di altre meno efficaci – questo in una situazione ove uno dei problemi maggiori in prospettiva è quello del forte impoverimento dei pensionati relativamente al resto della popolazione sulla base delle disposizioni attuali. Questo tema è ben presente a sindacati quale la CFDT come mostrano le sue proposte.
Un ripensamento del sistema pensionistico francese al pari di altri paesi appare opportuno – in particolare nel caso si intenda eliminare alla radice il problema dell’età pensionabile flessibilizzando l’uscita dal mondo del lavoro e inserendo fasi intermedie tra lavoro a tempo pieno e pensione. La complessità e la forte incertezza delle proiezioni consigliano infine una profonda riforma in modo da rendere il sistema pensionistico più robusto contro andamenti negativi dell’economia, soprattutto se non previsti. L’introduzione inoltre di un sistema universale faciliterebbe grandemente una ricalibrazione più equa delle pensioni ove il sistema pensionistico deve essere visto in rapporto a tutte le altri leggi relative alla protezione sociale, in particolare con riferimento alla disoccupazione e al livello di reddito minimo.
Un’ultima osservazione sia concessa, malgrado, come detto sopra, le decisioni siano da prendere democraticamente a buona maggioranza: alcuni – tra cui il sottoscritto – ritengono che l’esercizio di un’attività produttiva per la società cui si appartiene faccia parte del contratto sociale che la governa. A costoro sembra logico e naturale che ad un aumento della vitalità delle persone in corrispondenza dell’allungamento della vita attesa debba fare seguito anche uno spostamento in là nel tempo della fine dell’età lavorativa.
2 È significativo ricordare che i sindacati francesi derivano la forza della loro posizione contrattuale più dalla applicazione molto elevata dei contratti collettivi (copertura: 98% dei salariati – banca dati ILO; Italia: 99,0%) piuttosto che dal tasso di sindacalizzazione che è particolarmente basso (9% – banca dati ILO; Italia: 32,5%). I sindacati nazionali sono otto in Francia.
4 Il taglio dell’approccio della CGT su questo punto è reso in modo plastico dalla frase seguente: “In modo più generale noi auspichiamo l’azzeramento dei dividendi o che essi almeno vengano ridotti a qualcosa di trascurabile” (De manière plus générale, nous souhaitons que les dividendes disparaissent ou au moins soient réduits à peau de chagrin).
5 Da accumulare nel periodo contributivo e da convertire in un livello pensionistico al momento del pensionamento – Piketty è favorevole invece a una soluzione non troppo dissimile con l’utilizzo di conti nozionali. Uno dei vantaggi di tali sistemi è che essi possono fare a meno dell’età pensionabile grazie alla propria flessibilità Un sistema a punti è già applicato alle pensioni supplementari (AGIRC – ARRCO).
6 In Svezia esiste fondamentalmente una forchetta d’età per il pensionamento tra un minimo di 62 anni e un massimo di 68 anni. L’importo della pensione viene cumulato nel tempo fino a un massimo di 8,07 volte il reddito base, nel 2022 pari a SEK 71.000 (SEK 1 = 0,089 €). È interessante notare che coloro che hanno redditi annui superiori a SEK 672.600 non hanno diritto alla pensione statale.
Corruzione, Europa e la sinistra Italiana
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Di Federico Salvati, PD Berlino e Brandeburgo
Un commento sugli sviluppi del Qatargate resta veramente difficile da declinare.
Ammetto che, essendo la maggior parte dei personaggi coinvolti esponenti della sinistra italiana, la questione mi rammarica due volte: prima come italiano e poi come uomo di sinistra.
Tutto ciò alla luce delle ulteriori vicende che negli ultimi mesi (per non dire anni) hanno offuscato l’immagine del polo progressista in Italia (dal caso Soumahoro a D’Alema che fa il commerciante di armi fino alla famosa “scalata bancaria” di Fassino, i casi non ci mancano). Nel sistema politico le forze democratiche, liberali e progressiste dovrebbero essere motivate dai principi dell’uguaglianza, inclusività e altruismo. L’immagine che si dipinge a Bruxelles è invece quella di esponenti motivati dall’opportunismo e dall’individualismo: principi che a mio parere non dovrebbero appartenere al PD e in generale a tutte le forze che vogliano schierarsi a sinistra.
Più volte si è citata nella cornice del Qatargate la “questione morale” come fattore irrisolto della politica italiana. Io però non credo che la sinistra italiana abbia un problema di “questione morale” in se ma di “questione ideologica”.
Mi spiego. Negli ultimi anni è chiaramente emerso che né destra né sinistra possano vantare un marcato primato per quanto riguarda onestà e corruzione (con dovute misure e distinzioni chiaramente. La vicinanza di elementi, anche altolocati, di Forza Italia ad ambienti e personaggi di stampo mafioso è un fatto difficile da eguagliare, per esempio). Questo è segno che l’ambiente politico in Italia (nel suo complesso) è vulnerabile ad opportunisti e affaristi, i quali sfruttano i partiti più come trampolino di lancio per i propri interessi, piuttosto che come piattaforma di partecipazione. Uno dei fattori che ha agevolato e normalizzato questa tendenza è la profonda deideologizzazione dell’attività pubblica. La mancanza di un posizionamento politico forte fa mancare alle istituzioni di partito una morale interna chiara che può essere utilizzata per giudicare e regolare i comportamenti dei propri esponenti. Una posizione politica chiara significa infatti anche una morale deontologica ben definita.
Certamente questo non è in se una garanzia perfetta di onestà e legalità. Dopotutto i partiti della prima Repubblica avevano un forte carattere ideologico ma risultarono coinvolti ad ogni modo in forti scandali di corruzione. Un profilo politico chiaro, però, crea un sistema di giudizio e introduce un codice di etica, al di fuori del quale non si può legittimante agire nei confronti della “cosa pubblica”. Questo però alla politica italiana oggi manca dal momento che orami si è “ammalata di pragmatismo”.
Un posizionamento disambiguo inoltre aiuta anche a livello elettorale, come ci ha dimostrato la Meloni. In un’era di ambiguità ed eccessivo realismo, prendere posizioni chiare su determinati temi può essere un fattore di successo.
Alle soglie della ricostituzione del Partito Democratico io invito a riflettere sul nostro futuro. Credere nella democrazia e nel progressismo vuol dire credere in dei principi e dei valori che cozzano con l’eccessivo pragmatismo. Al contrario, ritenere che non ci sia differenza sostanziale tra le fazioni politiche e che il dibattito democratico sia semplicemente “il gioco delle parti” ci lascia in una posizione pericolosamente nichilista in cui il vantaggio personale diviene l’unico obiettivo razionale da perseguire.
Credere in qualcosa significa prendere posizione e per le personalità corsare senza bandiera come quelle coinvolte nelle vicende di Bruxelles non ci deve essere posto nella sinistra italiana.
Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro dello sciovinismo
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di Matteo Elis Landricina, PD Berlino e Brandeburgo
Si è fatto un gran parlare negli ultimi mesi dello stato di salute mentale, oltre che fisica, di Vladimir Putin. Esperti di varie discipline si sono lanciati in speculazioni secondo le quali dietro alla decisione del leader della Federazione Russa di scatenare l’aggressione attualmente in corso contro l’Ucraina potrebbe celarsi un qualche tipo infermità mentale. Confesso che anch’io, come molti altri, di fronte alle mostruosità scatenate dall’ordine di invasione dato da Putin ai suoi comandanti, mi sono più di una volta chiesto se il capo del Cremlino non sia da considerarsi pazzo, nel senso clinico del termine. Troppo inverosimile e folle sembrava nell’immediato post-invasione – e lo sembra ancora oggi – l’idea di aggredire a freddo un paese vicino, senza neanche uno straccio di provocazione, causando migliaia di morti e feriti oltre che una crisi energetica ed economica mondiale, e rischiando una degenerazione nucleare del conflitto di proporzioni apocalittiche. In realtà, a mente fredda, adoperandosi nel non facile distacco emotivo, la decisione del presidente russo appare per ciò che è, ovvero il sintomo di una tendenza politica di tipo sciovinista in atto da anni in Europa e nel mondo. Vladimir Putin vuole rendere – con i suoi metodi brutali e con il suo cinismo – la Russia great again, grande di nuovo, e per fare ciò è disposto a provocare una crisi di proporzioni mondiali.
Il putinismo, l’ideologia neo-zarista di cui si nutre il regime russo, si può far rientrare a pieno titolo nella categoria delle filosofie politiche scioviniste contemporanee, anche se si distingue in questa ultima fase per la sua particolare brutalità e per il disprezzo per tutte le norme del diritto internazionale e umanitario. Donald Trump, Jair Bolsonaro, Xi Jinping, Narendra Modi, Recep Tayyip Erdoğan, Vladimir Putin: negli ultimi anni alcune delle maggiori potenze mondiali a livello politico, economico, militare sono state governate da personalità carismatiche, nazionaliste e reazionarie. Si tratta certamente di paesi molto diversi tra di loro – alcuni sono democrazie, altri dittature – ma i governi e i regimi di cui sopra hanno tutti un trait d’union, ovvero quella particolare prospettiva che possiamo chiamare “il mio paese innanzitutto”. L’Europa per la storia che ha avuto è da questo punto di vista probabilmente il continente più a rischio di derive nazionaliste e scioviniste. Spesso a noi europei piace pensare al nostro continente come al faro della democrazia e dei diritti umani – se non nel mondo, perlomeno per quanto riguarda la massa territoriale euro-asiatica – e in buona misura certamente lo è. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che l’Europa è anche un cimitero di imperi. Laddove vi sono oggi stati democratici, fino a qualche secolo o anche solo qualche decennio fa si ergevano grandi imperi continentali e “madrepatrie” di enormi imperi coloniali. Questo passato sarà sempre lì, un recondito “patrimonio” ideologico a disposizione di demagoghi pronti ad alimentare nostalgie reazionarie per i propri scopi di potere.
Alcuni stati europei già titolari di vastissimi possedimenti territoriali, come Portogallo, Olanda, Belgio, Austria, sembrano essersi lasciati per sempre alle spalle velleità imperiali, viste anche le proprie dimensioni geografiche ormai ridotte, ma non sono per questo necessariamente immuni al populismo reazionario. Altri invece, come la Gran Bretagna e, in misura minore, la Francia, faticano invece a staccarsi dai loro “sogni di gloria”. Così come le grandi potenze Stati Uniti, Russia e Cina sono tutte più o meno animate da spiriti eccezionalistici e anche missionaristici, anche in Europa sono ancora molti coloro che considerano il proprio paese “diverso da tutti” e portatore di una “missione storica”. Se il caso della Russia di Putin è estremo nella sua radicalità, il germe del nazionalismo e dello sciovinismo è più o meno presente in praticamente tutti i maggiori popoli europei.
L’Italia, patria fondatrice del fascismo, ha storicamente fatto tra i primi paesi europei l’esperienza dell’ubriacatura nazionalista e delle sue nefaste conseguenze. Nonostante ciò, come un alcolista incorreggibile, anche l’Italia in momenti di crisi è sempre tentata di fuggire dai problemi della realtà affidandosi all’ebbrezza del populismo e del nazionalismo, come ci hanno mostrato per ultime le recenti elezioni politiche. Gli esempi degli ultimi anni a livello mondiale ci mostrano chiaramente che il populismo neo-sciovinista arreca più o meno danni alle comunità politiche nazionali ed internazionali a seconda di quanto il sistema politico in cui si sviluppano li lascia fare. Se c’è una risposta popolare forte di opposizione, se i sistemi istituzionali, culturali e sociali di checks and balances funzionano, il nazionalismo arretra, come nel caso degli Stati Uniti e, speriamo, anche del Brasile. Se invece vengono lasciati agire, se non incontrano abbastanza resistenza, i nazionalismi dilagano e possono provocare danni gravissimi.
Personalmente mi auguro che il Partito Democratico, al di là della doverosa riflessione nei prossimi mesi – anche autocritica – su se stesso, sul proprio profilo e sulle proprie prospettive, si renda conto della responsabilità che ha in quanto principale partito di opposizione a questa destra, che andrà giudicata nei fatti ma che già si prevede potenzialmente rovinosa per il paese. L’opposizione non dev’essere in questo senso solamente l’occasione per leccarsi le ferite e riorganizzarsi in vista delle prossime elezioni, ma il momento di dimostrare all’Italia e all’Europa la propria utilità in quanto partito democratico di massa radicato sul territorio per riuscire ad arginare la marea di populismo sciovinista che si preannuncia. Questo il mio auspicio e la mia speranza in tempi purtroppo sempre più preoccupanti.
Fonte immagine: Asatur Yesayants/Shutterstock
È uscito il numero di maggio di Agorà
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Lunedì 30 maggio è stato pubblicato il numero di maggio del giornale di Circolo, Agorà. Agorà è un’iniziativa che si basa sul libero contributo di iscritte e iscritti a partecipare con le loro conoscenze su dei numeri tematici, pubblicati dietro iniziativa del Circolo e che non seguono una periodicità.
Nel numero di maggio si affronta il tema in Ucraina da una prospettiva geopolitica, economica e politica. Viene data attenzione al caso russo per cercare di risalire alle cause del conflitto e analizzare impatto e conseguenze. Hanno contribuito alla stesura del numero Alberto Vettese, Federico Salvati, Pierantonio Rumignani e Federico Quadrelli. Ha redatto il numero Alberto Vettese.
Il PD Berlino-Brandeburgo rappresentato dall’organo direttivo
1. condanna l’operazione militare aggressiva e ingiustificata nei confronti dell’Ucraina avviata nella scorsa settimana.
Le principali città ucraine sono sotto il fuoco dell’esercito russo: Kharkiv, Kyiv, Odessa, Dniepro, più diverse città sulla sponda est del fiume Dniepro.
2. qualifica il discorso alla nazione del presidente Putin, nella giornata precedente come fortemente nazionalista e reazionario e nota che la Russia ha fomentato il conflitto per un anno usando il pretesto di esercitazioni militari congiunte con la Bielorussia e senza mai ritirare le truppe dalle postazioni di confine.
3. riafferma l’importanza del rispetto dei confini e dell’indipendenza dell’Ucraina. La fine dell’URSS avvenne nel 1991 con la dichiarazione de-facto di indipendenza dall’URSS della Federazione Russa di Eltsin ed in seguito di tutte le altre Repubbliche, tra cui della Repubblica Socialista Ucraina.
Da allora l’Ucraina è un paese indipendente riconosciuto dalla stessa Federazione Russa, con legittima aspirazione Europee.
Il PD Berlino-Brandenburgo guarda dunque con grande preoccupazione alla lesione di accordi che mettono in dubbio il sistema di cooperazione internazionale che nei decenni passati ha evitato conflitti di scala maggiore.
Prendendo atto delle scelte aggressive della Russia e con il desiderio di mantenere un sistema internazionale che possa garantire pace e prosperità invece che guerre il PD Berlino-Brandenburgo si appella ai governi europei ed ai nostri rappresentanti PD nel governo italiano per il conseguimento dei seguenti obiettivi:
a) Il mantenimento ed inasprimento di dure sanzioni economiche per isolare la Russia dal sistema di cooperazione internazionale che ha scelto di ignorare.
b) La creazione nel medio termine di una forza di difesa europea con stazionamento a est per proteggere i paesi che hanno più da temere (Baltico, Finlandia).
c) La razionalizzazione della produzione bellica con riduzione di modelli a favore di maggiori volumi, spostamento di competenze verso la commissione con un ministro degli esteri.
d) La sincronizzazione della riduzione dell’utilizzo dell’energia fossile unitamente quella della dipendenza dalla Russia.
e) Il congelamento di conti bancari intestati a russi o società di comodo (in particolare Cipro) e di proprietà immobiliare fino all’espropriazione.
d) Il blocco all’accesso al mercato dei capitali europeo per le imprese russe.
Queste misure devo però essere accompagnata dalla massima disponibilità al dialogo. L’ obiettivo rimane un sistema di cooperazione pacifica internazionale e non un’escalazione del conflitto.
Allo stesso modo i contatti con la società civile russa vanno sostenuti con decisione.
Gli interventi in Italia e in Germania contro il Covid19 per la ripresa economica
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Abbiamo creato un gruppo di lavoro congiunto che ha elaborato un documento d’analisi economica che abbiamo avuto il piacere e il privilegio di discutere lunedì 21 dicembre 2020 con Emanuele Felice, responsabile nazionale del Partito Democratico. Questo incontro ci ha permesso di raffinare l’analisi e d’integrare il tutto con una riflessione politica. Di seguito il PDF del documento economico-politico che mettiamo a disposizione della comunità del PD nel mondo.
Parere sulla riforma della politica agricola comune (PAC)
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Dopo anni di dibattiti e promesse di riforma della PAC dell’Unione Europea, le posizioni del Consiglio Agricoltura dell’UE e del Parlamento Europeo per i negoziati finali del trilogo con la Commissione dimostrano una assoluta mancanza di volontà di rendere la PAC più equilibrata e sostenibile dal punto di vista sociale. Come in precedenza, la maggior parte dei sussidi agli agricoltori dovrebbe essere distribuita esclusivamente sulla base delle dimensioni della superficie coltivata. Al contrario, l’eccessiva concimazione, la protezione delle acque sotterranee, la mortalità degli insetti e degli uccelli e la diffusa capitolazione delle piccole e medie aziende agricole al mercato e alle condizioni di lavoro miserabili giocano solo un ruolo minore.
Sosteniamo gli appelli contro un “ulteriormente così” (#Ritiro del PAC) e per un coraggioso cambiamento nella politica agricola dell’UE e chiediamo alla Commissione di collegare la politica agricola con il Green Deal. Nel Green Deal, la Commissione e le istituzioni dell’UE promettono di rendere il nostro continente rispettoso del clima e sostenibile. Quest’anno è stata lanciata anche la strategia per la biodiversità. Il fatto che la politica agricola, che rappresenta circa il 30% del bilancio dell’UE, non venga fondamentalmente riformata in un simile contesto contraddice le precedenti dichiarazioni e priva la politica di qualsiasi credibilità. Siamo particolarmente delusi dalla proposta avanzata dalla Presidenza tedesca in Consiglio.
Anche il Parlamento europeo ha adottato la sua posizione il 23 ottobre. Anche se la maggioranza del gruppo S&D lo ha sostenuto con i liberali e i conservatori, una parte considerevole ha deciso di non farlo perché non si sono potuti introdurre sufficienti miglioramenti. Ringraziamo loro per la loro fermezza a sostegno di un Europa piú verde. Notiamo con delusione che il gruppo PD non è da enumerare tra i parlamentari sopra detti ed auspichiamo ad un ripensamento della posizione presa
Chiediamo inoltre alla Commissione di ritirare la proposta della vecchia legislatura e di presentarne una nuova che soddisfi gli obiettivi del Green Deal.
Arturo Winters
Circolo PD Berlino e Brandeburgo
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Tradotto in parte da un analogo documento redatto in tedesco con il sostegno di deepl.
Approfondimento: cos’è il MES, Meccanismo Europeo di Solidarietà
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L’European Stability Mechanism (ESM, o MES se si usa l’acronimo italiano) è uno strumento creato nel 2012 come creditore di ultima istanza per 19 paesi dell’Eurozona. Il MES, insieme al programma di acquisti di titoli di stato della Banca Centrale Europea (BCE), rappresenta la principale eredità della crisi dei debiti sovrani del 2010-12. Esso sostituisce l’ESFS, un veicolo provvisorio creato per fornire crediti di emergenza a tassi d’interesse tollerabili per la Grecia. A differenza di quest’ultimo, che rappresentava in tutto e per tutto una soluzione improvvisata per dare ossigeno alle finanze elleniche, il MES è integrato nella più ampia architettura istituzionale europea, essendo stato aggiunto tramite emendamento al Trattato di Lisbona (pur rimanendo un’istituzione puramente intergovernamentale).
Il Meccanismo agisce in totale autonomia, beneficiando di ben 700 miliardi di euro in liquidità trasferiti dagli stati sottoscrittori (di cui attualmente 431 miliardi sono a disposizione per nuovi prestiti). Questo è particolarmente importante perché i fondi del Meccanismo non sono quindi finanziati tramite l’emissione di debito dei paesi dell’Eurozona.
Il Board of Governors del MES è composto dai ministri delle finanze dell’eurozona, ognuno con il diritto di nomina di un direttore assegnato al board of directors amministrativo. Nelle sue operazioni il MES rappresenta quindi l’espressione delle priorità dei paesi membri dell’area euro. Tuttavia, legalmente e nei fatti, il MES è anche tenuto a una stretta collaborazione istituzione con partner quali l’ECB e la Commissione Europea, le quali sono coinvolte sia nell’elaborazione che nell’implementazione di specifici pacchetti di credito. I programmi del MES possono essere elargiti sia a stati membri (come la Grecia o Cipro), sia a istituti bancari (come è avvenuto nel caso spagnolo).
Le decisioni all’interno del MES vengono prese all’unanimità. In caso di emergenza decisioni possono essere adottate con 2/3 dei voti favorevoli (con un quorum del 80%). A causa dei diversi livelli di contribuzione dei paesi firmatari, che determinano il numero di voti, Germania, Francia e Italia detengono de facto un diritto di veto.
Le linee di credito del MES sono riservate ai paesi firmatari del Fiscal Compact e sono “condizionali”, cioè devono essere accompagnate da una serie di politiche da parte del debitore che garantiscano la restituzione dei fondi richiesti. La negoziazione delle condizionalità è affidata alla Commissione Europea “in liaison con la BCE”. Di massima, la condizionalità può prevedere sia profondi aggiustamenti macroeconomici, sia il semplice rispetto delle norme che hanno permesso l’accesso ai fondi in primo luogo. La condizionalità può variare a seconda delle circostanze ed è stabilita da un Memorandum of Understanding (MoU) firmato dal paese debitore e dal MES.
Nel processo di ratifica del MES, i parlamenti nazionali sono stati coinvolti in diverse maniere, influenzando il funzionamento del Meccanismo. Analisi empiriche, in particolare, rivelano che il coinvolgimento delle assemblee nazionali ha portato ad un’evidente politicizzazione dello strumento, sottraendolo in parte alla semplice logica di stabilizzazione macroeconomica e trasformandolo in un oggetto di contesa domestica. Questa politicizzazione, inoltre, è avvenuta in maniera asimmetrica: alcuni parlamenti hanno percepito il proprio ruolo in maniera molto più marcata di altri. Ciò è evidente nel dibattito italiano e greco, dove l’imposizione di intraprendere determinate riforme come da MoU è vista come un limite alle decisioni di governi democraticamente eletti, ma anche nei paesi creditori come la Germania. Qui, il trattato e il trasferimento dei fondi sono stati recepiti tramite una legge apposita (ESMfG): toccando le competenze budgetarie del parlamento, infatti, il Bundestag ha il diritto e dovere di essere coinvolto nei processi decisionali del MES, attraverso un voto della commissione budgetaria o della plenaria. Anche sui mercati finanziari, la richiesta di credito al MES è associata a un certo livello di stigma economico perché segnala fragilità dei conti e delle future prospettive del paese. Una recente proposta prevede la diminuzione di questo problema di percezione tramite la richiesta di accesso (senza necessario prelievo) ai fondi del MES da parte di tutti i 19 paesi firmatari.
Autore: Michelangelo Freyre
Fonti:
Bardutzky, Samo. “Constitutional Courts, Preliminary Rulings and the ‘New Form of Law’: The Adjudication of the European Stability Mechanism.” German Law Journal 16, no. 6 (December 2015): 1771–90. https://doi.org/10.1017/S2071832200021337.
European Council. “Treaty Establishing the European Stability Mechanism (ESM),” n.d. Wikisource.
Höing, Oliver. “Asymmetric Influence: National Parliaments in the European Stability Mechanism.” Universität zu Köln, 2015.
Minenna, Marcello, and Dario Aversa. “A Revised European Stability Mechanism to Realize Risk Sharing on Public Debts at Market Conditions and Realign Economic Cycles in the Euro Area.” Economic Notes 48, no. 1 (2019): 12118. https://doi.org/10.1111/ecno.12118.