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Parere sulla riforma della politica agricola comune (PAC)

Dopo anni di dibattiti e promesse di riforma della PAC dell’Unione Europea, le posizioni del Consiglio Agricoltura dell’UE e del Parlamento Europeo per i negoziati finali del trilogo con la Commissione dimostrano una assoluta mancanza di volontà di rendere la PAC più equilibrata e sostenibile dal punto di vista sociale. Come in precedenza, la maggior parte dei sussidi agli agricoltori dovrebbe essere distribuita esclusivamente sulla base delle dimensioni della superficie coltivata. Al contrario, l’eccessiva concimazione, la protezione delle acque sotterranee, la mortalità degli insetti e degli uccelli e la diffusa capitolazione delle piccole e medie aziende agricole al mercato e alle condizioni di lavoro miserabili giocano solo un ruolo minore.

Sosteniamo gli appelli contro un “ulteriormente così” (#Ritiro del PAC) e per un coraggioso cambiamento nella politica agricola dell’UE e chiediamo alla Commissione di collegare la politica agricola con il Green Deal. Nel Green Deal, la Commissione e le istituzioni dell’UE promettono di rendere il nostro continente rispettoso del clima e sostenibile. Quest’anno è stata lanciata anche la strategia per la biodiversità. Il fatto che la politica agricola, che rappresenta circa il 30% del bilancio dell’UE, non venga fondamentalmente riformata in un simile contesto contraddice le precedenti dichiarazioni e priva la politica di qualsiasi credibilità. Siamo particolarmente delusi dalla proposta avanzata dalla Presidenza tedesca in Consiglio.

Anche il Parlamento europeo ha adottato la sua posizione il 23 ottobre. Anche se la maggioranza del gruppo S&D lo ha sostenuto con i liberali e i conservatori, una parte considerevole ha deciso di non farlo perché non si sono potuti introdurre sufficienti miglioramenti. Ringraziamo loro per la loro fermezza a sostegno di un Europa piú verde. Notiamo con delusione che il gruppo PD non è da enumerare tra i parlamentari sopra detti ed auspichiamo ad un ripensamento della posizione presa

Chiediamo inoltre alla Commissione di ritirare la proposta della vecchia legislatura e di presentarne una nuova che soddisfi gli obiettivi del Green Deal.

 

Arturo Winters

Circolo PD Berlino e Brandeburgo

 

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Tradotto in parte da un analogo documento redatto in tedesco con il sostegno di deepl.




Smart working: diritto o rivoluzione?

Una riflessione politica

di Alberto Vettese e Valentina Piacentini

 

 

Questa riflessione nasce come reazione alla notizia di una proposta in seno ad analisti della Deutsche Bank, secondo cui per poter rimediare ai buchi fiscali dovuti a minor gettito causa covid, è possibile intervenire gravando sui lavoratori le cui attività in questo periodo si svolgono in home office. Si parla concretamente di un’imposta “di solidarietà” a sostegno di coloro che sono rimasti fermi o quasi dall’inizio dell’epidemia e la cui attività lavorativa non può essere dislocata ed esercitata in remoto, ossia da casa.

A nostro parere, una proposta di questo tipo è miope, per una serie di ragioni. La prima è una questione di errore “nei termini”: far passare il messaggio che i lavoratori in smart working siano le “nuove galline dalle uova d’oro” è sbagliato ed ingiusto. Sbagliato, perché questi fronteggiano nuove spese e devono lavorare spesso con mezzi propri, consumando risorse che non vengono rimborsate (elettricità, riscaldamento, banda internet ecc…). È la logica dei rider che lavorano per compagnie come Uber Eat, Lieferando, ecc. Categoria che come è stato dimostrato, viene sfruttata, a cui non vengono riconosciuti diritti e che si trova in una posizione contrattuale fragile. Le minori spese per i pasti evitati ai bar o per i consumi non devono venir date per scontate: nelle fasce più deboli il pranzo e i pasti vengono preparati a casa e come Berlino dimostra, c’è chi si muove in bicicletta per far respirare il portafoglio (e l’ambiente).

È inoltre ingiusto fare leva fiscale sui lavoratori in remoto perché sarebbe una “soluzione sbagliata” ad un problema di sistema che sta emergendo solo adesso con la crisi del coronavirus. Il Partito Democratico è sensibile ad istanze di tema ambientale e si fa portavoce di soluzioni europee ed iniziative internazionali, come gli accordi di Parigi sul clima. Lo smart working ha permesso all’Italia di compiere un balzo in avanti ed avvicinarsi a medie di flessibilità lavorativa simili a paesi del Nord Europa. Come spesso accade, il nostro paese si avvicina ai suoi “competitor” in ritardo e dietro costrizione, vedi la condanna di Strasburgo all’Italia nel 2015 per mancata legiferazione sulle unioni civili. Un’occasione epocale che ci permette di tagliare consumi non necessari – spese fuori casa, consumo di carburante ecc. – viene fraintesa e vista come “il problema”, quando si tratta di una soluzione, non l’unica, al problema del riscaldamento climatico.

Il mondo ha bisogno di soluzioni intelligenti, l’Italia, pure. Un lavoro più flessibile, un rapporto lavorativo meno gerarchico e più improntato al raggiungimento di obiettivi prefissati, un maggiore equilibrio fra vita familiare e lavoro. La pandemia ci sta insegnando a reinventarci in maniera intelligente: diciamo di sì agli aspetti positivi di questa crisi globale, ma rispediamo al mittente richieste astratte e che pesano sul cittadino medio (e dipendente), notoriamente già obiettivo di attenzioni fiscali. Come viene fatto notare dagli autori di questo articolo, la solidarietà viene spesso compresa come “intraclasse”, anziché redistributiva. Un po’ il contrario di quello che si prefissa il PD, e che, in un contesto nel quale si porta avanti la Tobin Tax e mentre si considera di tassare le macchine – i mezzi di produzione, non il lavoro – si rimane perlomeno perplessi di fronte a finte proposte redistributive, di comodo.